L'anima e l'infinito. GIULIANA BRESCIA nel cinquantenario della morte (1945-1973)

Un verso può uccidere, lo asseriva un giovane autore serbo di cui Daniele Giancane e io ci siamo occupati nella collana “Poeti del mondo” da noi diretta per vari anni. Mi riferisco a Branko Miljković (1934-1961) e al volume Le acque cieche dello Stige edito a Bari da La Vallisa, a dicembre 1994, con scelta dei testi e traduzione di Dragan Mraović. Una silloge suggestiva, con un epitaffio mozzafiato: «Mi ha ucciso la parola troppo forte». 

La vita e la morte, il vuoto e il nulla erano delle costanti dell’autore di Niš, ritenuto tra i maggiori della poesia serba del XX secolo. Erudito e bohémien, amante dei classici (Ovidio, Lucrezio, Dante, Petrarca, Ariosto, Leopardi, Manzoni), si considerava «il pronipote dei simbolisti e il nipote dei surrealisti» secondo quanto attestato dallo scrittore Vidosav - Vice Petrović, conterraneo e amico d’infanzia del poeta.  

Miljković vagava tra Belgrado e Zagabria, sfidando i giorni e i segni. Si suicidò nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1961 nella capitale croata. La pagina era stata per lui un «campo di battaglia». Se Mraović lo accosta subito a Cesare Pavese, nella mia mente spuntano altri nomi, tra i quali il rivoluzionario Majakovskij che recise la sua giovane vita con un colpo di pistola al cuore.

Per restare al Sud Italia e tracciare qualche parallelo mi sovvengono i versi di autori formidabili che non hanno resistito alla lotta con la vita e con le parole. Penso ai salentini Salvatore Toma (1951-1987) e Claudia Ruggeri (1967-1996), ma anche ai lucani Giuliana Brescia (1945-1973), Beppe Salvia (1954-1985) e Mimmo Cervellino (1947-2007).

Giuliana era nata a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, il 21 febbraio 1945 ed è morta suicida a Bari l’11 luglio 1973, dove viveva con il marito e la figlioletta Nadia Amanda. Di lei hanno scritto intellettuali di prestigio come Tommaso Fiore ed Ezio Di Poppa Volture, mettendo in risalto le doti precoci e la bellezza dei versi. Ho conosciuto e frequentato a lungo la sua famiglia, ricavandone utili conversazioni che mi hanno aiutato a comprendere la complessa vicenda dell’autrice.
Ho scritto di lei e tenuto conferenze in parecchie città, tante volte alla presenza del fratello Sergio, dotto magistrato scomparso a Roma nell’autunno 2021. Per un saggio più sostanzioso rimando alla rivista «Euterpe» n. 32, 2020, dal titolo La poesia delle donne: la voce di Giuliana Brescia. Altri contributi sono apparsi in diverse pubblicazioni, tra cui «La Vallisa» (Atti del Convegno Nazionale “Donne e Poesia” 1986: Le tigri e le mimose, La Vallisa, Bari 1987, pp. 53-60, il quadrimestrale «La Vallisa» n. 65, 2003, pp. 7-17).


La scrittrice rionerese era cresciuta in un ambiente colto. Il padre Antonio, geometra e giornalista pubblicista, collaborava a svariati periodici, la madre Iolanda Vorrasi era donna di grande sensibilità e finezza. Giuliana già a tredici anni mostrava un innato talento per la prosa e la poesia e gestiva con il fratello Sergio il ciclostilato «Il Formicaio», dove apparvero i suoi primi racconti. Non fu difficile per i genitori riconoscerne il valore, confortati dal parere di scrittori del livello di Giovanni Catenacci, Carlotta e Roberto Mandel, Vincenzo Buccino ed altri.

Giuliana studiò Lettere all’Università di Napoli, e visse, oltre che in Lucania, a Foggia e Bari. Bella ed emancipata non riusciva ad adattarsi al ritmo della vita. Schiva e amante della solitudine, confidava ai fogli le ansie e i turbamenti.

Il pensiero della morte le martellava le tempie e l’inquietudine raramente si congedava. Credo che se fosse vissuta avrebbe scritto racconti noir, con linguaggio lucido e misterico. La poesia era lo specchio della sua anima che conosceva le profondità degli abissi, ma pure l’incanto della natura e della notte. L’amore è un sentimento che pervade tutta l’opera. Il canzoniere gocciola nostalgia e tormento. Solo la natura placa a tratti il suo spirito (vedi il trasporto per il paesaggio e per i laghi di Monticchio nei quali si riflette l’antica badia di San Michele Arcangelo).

I volumi in prosa annoverano Canovacci di racconti che non scriverò (Nello Punzo, Napoli 1968), Lettere d’un soldato, (ivi, 1969), Altri canovacci di racconti che non scriverò e Miscellanea (Laurenziana, Napoli 1985), postumi. Per la poesia si menzionano: Tele di ragno (Pellegrini, Cosenza 1969), Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri 1969, Brano di Diario ed altre poesie (ivi, 1970), Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri 1971, Poesie del dubbio e della fede (Laurenziana, Napoli 1984), postume, Versi affiorati dai cassetti (Osanna, Venosa 1985), postumi. Giuliana adolescente scriveva testi intensi per la sua età. Il dolore e la morte sono temi ricorrenti della narrativa.

Nei racconti dell’85 (Altri canovacci di racconti che non scriverò e Miscellanea, postumi, Laurenziana, Napoli 1985), ritrovati dalla Signora Iole, in quei «cassetti chiusi a chiave» della raccolta Poesie del dubbio e della fede, il «trillo d’angoscia» dell’usignolo, «la vita (che) ci stanca e ci pesa opprimendoci», la rinuncia, la sorte che toglie tutto quanto aveva prodigato, l’oblio, le ali di cera, il volo, il sogno concepito come «seconda vita, […] la libertà completa di tutto il nostro essere», l’amore che naufraga, le foglie che cadono por-tando messaggi di morte, il canto tragico, il rimorso, il suicidio, la rivolta della natura sono elementi in perfetta sintonia con la semantica dei versi. I ritratti di donna sono spesso delle maschere sarcastiche.

In Elogio della notte la Brescia rivela un’anima romantica che anela alla solitudine e al buio:

È bello camminare lungo le strade della città addormentata, soli con sé stessi e con la propria anima. È bello andare senza sosta alcuna, senza paura del buio che ci circonda, perché sappiamo che ci è amico e che non ci ingannerà, restando con noi e occultandoci al resto del mondo.

Nonostante la verde età, avverte il peso della vita che ritiene «dura e cattiva» (La fiaba della vita, in G. Brescia, Altri canovacci di racconti che non scriverò e Miscellanea, postumi, Laurenziana, Napoli 1985, p. 42). Le ultime lettere d’un soldato dispiegano una realtà feroce: quella della guerra, con migliaia di morti e feriti.
Carlo, un giovane soldato, in una delle missive alla famiglia scrive:

(9) 21 - 4 - 19
Carissima mamma, sto sempre male e la febbre è salita, ma Landro dice che tutto si risolverà. Io non ne sono altrettanto convinto e temo che sia sorta un’infezione. Qua le medicine sono poche e i feriti troppi. Ho paura di perdere il braccio sebbene Landro nel visitarmi mi sorrida «scherzando»: «Per Lui si fa questo ed altro». Già, ma il braccio non è mica suo! Prega per me e chi sa che tutto non si risolva bene. Ti abbraccio Carlo
P.S. – Dà per me un bacio ad Ilda.

La condanna della guerra, fatta di «sangue e di fango», di «sangue e di lacrime» è netta e richiama gli attuali conflitti.
Carlo rappresenta i tanti ragazzi mandati a morire per un delirio di grandezza. Il racconto La torre del diavolo è costruito con suspense e movimenti dall’esterno all’interno. Un giovane ‘artista’, attratto dal sogno e dalla leggenda, si innamora della donna raffigurata in un quadro per la cui conquista perde l’anima e il corpo. Si tratta di una scrittura dal sapore kafkiano e ammiccante all’horror.

Nella Presentazione al volume Altri canovacci di racconti che non scriverò, Antonio Brescia, riferendosi soprattutto a Le ultime lettere d’un soldato, parla di «meditazioni spietate […] che mozzano il fiato ad un vecchio padre, il quale ricordava una figliuola che – quattordicenne – confezionava ancora vestine per le numerose sue bambole, esprimendo la scusante di volere – adulta – aprire una boutique di moda». La vena poetica di Giuliana la colloca tra le autrici più interessanti del secondo Novecento lucano.


L’esordio nel ’68 è accompagnato da giudizi critici lusinghieri e parecchi premi letterari. I versi erano stati pubblicati in «fogli qualificati», compreso la «Sveglia lucana» di Forenza. Tommaso Fiore il 2 agosto ’68 scrisse di lei sul quotidiano «La Gazzetta del Mezzogiorno» appellandola «La piccola Saffo».

I segni del ‘male di vivere’ affiorano sin da Tele di ragno, sua prima silloge: «mi resta / soltanto nel fianco / lo spasimo acuto / di un male che è ancora: la vita» (Andate! Non piango…, in G. Brescia, Tele di ragno, Pellegrini, Cosenza 1969, pp. 17-19). Seppure incantata dalla bellezza del territorio, si convince di non avere più luce negli occhi (La falce, ivi, p. 21) che chiude per negare «un sole» che non sente più suo. Si esprime come se avesse vissuto altre vite.

L’identificazione con la natura genera versi lievi: «sono una foglia stanca / che il vento non sa più dove portare / […] morire d’autunno per un lento / male di nostalgia (Nostalgia, ivi, p. 29). Giuliana subiva il fascino del ‘non essere’, del brivido dell’abisso e del viaggio senza meta. Viveva di parole semplici e ribelli (Intima rivolta, ivi, pp. 38-39). Voleva rinnovarsi ed essere «anima spoglia e sola» (Pulizie di prima-vera, ivi, pp. 40-41).

Nella raccolta Brano di diario, in preda all’amarezza, cercava «il fiore dell’oblio» (Sconforto, in G. Brescia, Brano di Diario ed altre poesie, Pellegrini, Cosenza 1970, p. 14) e «le oscure radici del male». Talvolta si sdoppiava per osservarsi, chiedere aiuto, capire, ritrovare «l’amore della vita» (Aspirazione, ivi, p. 23).

L’efficacissima immagine della «rondine / che insegue un sogno di colore eterno» (Mura di cielo, ivi, p. 24) chiarisce l’impronta impressa alla sua esistenza. Giuliana si analizza senza sconti. Vorrebbe che l’anima le ritornasse per darle l’infinito. La lotta col sé è cruenta; le metafore si accavallano nella loro straripante bellezza: «Tutti i mari della mia vita / hanno gettato sulla spiaggia / piatta, stanca di sole, / una piccola cosa senza vele» (Senza meta, ivi, p. 28). La sua è una «ironica sfida» che la sfibra, ma che le fa percepire ogni piccolo moto interiore da cui scaturiscono testi ameni. Si interroga per intendere le ragioni della pena, poiché «niente è così amaro come restare» (Dov’è la tua anima, ivi, p. 37).

C’è sempre un ‘tu’ a cui si rivolge, ma sovente quel ‘tu’ non è altro che il suo doppio che tuttavia sottolinea una esigenza di dialogo. Confessa che si può restare «come misera pianta d’edera / inaridita attorno all’orgoglio» (Senza titolo, ivi, p. 43) e di «non aver saputo formare / che un mostruoso niente» (Mediocre artista, ivi, pp. 47-48). Sente le parole condannate alla sua stessa condanna: quella di «non potersi mai ritrovare» (Smarrimento, ivi, p. 52). L’atteggiamento verso le parole, che considera corpi vivi, l’avvicinano a Miljković che annotava: «la parola pronunciata sta di fronte a me / mi accusa / […] le mie parole non mi riconoscono» (B. Miljković, Le acque cieche dello Stige, La Vallisa, Bari 1994, Sezione Tra i due giorni, p. 21).

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Poesie del dubbio e della fede è una silloge corposa, con in copertina un altorilievo dell’autrice. La dedica alla figlia Nadia Amanda evidenzia il peso dell’assenza. Il libro si apre con un grido di ribellione e di disprezzo per il mondo. Giuliana si duole di non saper «capire e volare» con la poesia che comunque le accende una luce e le dona il canto. Tra sogni e desideri intuisce che è ancora lungo «il tempo / per morire». L’unico anelito è «restare libera e sola, mescolata e persa / in divine parole di poesia» (Dove siete?, in G. Brescia, Poesie del dubbio e della fede, Laurenziana, Napoli 1984, p. 18). Gli attimi di gioia e leggerezza sono fugaci e presto cedono il passo all’angoscia. Le parole la irridono, ma l’amore le vibra dentro: «Il tuo nome sulle mie labbra / mi pareva un bacio lieve».

Il dubbio, la fede, la prigione del corpo, i lampi di lirismo (il dialogo con la luna, le stelle), l’ossessiva attrazione del baratro, la sensazione del vuoto, la crudeltà della ragione, le visioni: «ho sentito la morte più vicina / ne ho visto le nere orbite vuote» (Colpevole!, ivi, p. 32), la percezione che il sogno «non vedrà l’alba» dicono di una novella Cassandra e di un’anima che fa della verità il suo vessillo. Fragilità e tenerezza non sono in antitesi, si dividono il campo e sgorgano versi delicati come «una poesia di felicità».

I numi della pagina sono il silenzio e l’immaginazione e quell’oltre che Giuliana non smette mai di inseguire. Le liriche d’amore sono incisive (Silenzio eloquente, Tu: sempre!, Sogni, ecc.). Tra le immagini più riuscite spicca l’«uccello malato d’amore». Lei si sente tradita dalla vita e dall’amore. La sincerità del dettato le suggerisce versi pregni di tristezza e di ammaliante bellezza: «Oh quali pascoli del cielo ho perduto / andando per le vie del disgusto, / lasciando che le mie parole / annegassero nell’amaro!» (I perduti pascoli del cielo, ivi, p. 72).

L’autrice non rinnega la fede, è dilaniata dal dubbio. I pressanti quesiti sono un’inconscia richiesta di salvezza, l’esigenza di aggrapparsi a qualcuno/qualcosa che le faccia tacere i morsi del dolore: «Forse di là rispondi col silenzio / ed io non so sentire / se attraverso quest’onda di dolore / tu mi trasmetti il dono della fede» (Il dono della fede - Dov’è la tua anima?, ivi, p. 75).

La struggente lirica Commiato…, dedicata ai genitori, è un testamento e un bilancio della vita. Porta la data del 1973, anno di morte dell’autrice. I sentimenti e la pena si mescolano ai ricordi che più non consolano. Giuliana si congeda, alludendo agli inediti e chiedendo ai suoi cari di non dimenticarla.
In Appendice si leggono alcuni scritti tratti da «Il Formicaio» del 1958/59. Sono favolette e versi di una tredicenne in cui amore e morte si contendono la pagina.

La Brescia condivide il destino della milanese Antonia Pozzi, Amelia Rosselli (con la quale sono stata in contatto), Nadia Campana, la britannica Virginia Woolf, le americane Sylvia Plath, Diane Arbus, Anne Sexton ed altre che hanno stroncato la propria vita e lasciato versi sublimi. La poesia delle donne nel Novecento ha dato esiti brillanti, ma ha conosciuto una tremenda epidemia di suicidi.


Versi affiorati dai cassetti è l’opera più consistente e matura dell’autrice, preceduta da una esaustiva Presentazione del padre, che ha avuto la bontà di includere un brano della mia critica a Poesie del dubbio e della fede e, in una lettera, di dedicarmi la poesia Visioni di p. 146. Di questa silloge, dagli accenti lirici e crepuscolari, ritornerò in altra occasione. In essa allignano versi luminosi che talora riconducono a Isabella Morra e che consentono alla scrittrice di Rionero di varcare ampiamente i confini regionali.

Anna Santoliquido

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