VITTORIO BODINI. Uno sguardo dal poggio (di M. I. DE SANTIS)


Nella raccolta di Bodini Dopo la luna, nella poesia “Troppo rapidamente” ci sono due versi emblematici: «Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa». Questi versi esprimono in efficace sintesi la dimensione mediterranea ed europea della vita e della poesia di Vittorio Bodini. Infatti Bodini nasce a Bari il 6 gennaio 1914 da una famiglia leccese e a 30 anni, nel 1946, va in Spagna a Madrid, dove ha ricevuto un incarico di sei mesi come lettore e ricercatore presso l’Istituto Italiano di Cultura.

La permanenza spagnola, tuttavia, va ben oltre la semestrale borsa di studio e durerà quasi quattro anni, fino al 1949. Nel 1947 otto sue liriche vengono pubblicate a Barcellona nella rivista “Entregas de poesía”.



Terminato l’incarico, per sopravvivere fa l’antiquario di mobili, quadri e pianoforti. Frequenta i giovanissimi poeti che si raccolgono intorno alla rivista “Garcilaso”, si mescola alla varia umanità del “Café Gijón” e legge, studia e comincia a tradurre autori antichi e nuovi, che poi pubblicherà strada facendo: Miguel de Cervantes, Pedro Salinas, Rafael Alberti, i poeti surrealisti spagnoli, Federico García Lorca, Francisco Gómez de Quevedo, Juan Lorrea e altri (compreso il cileno Neruda). Si comprende facilmente che la Spagna è il paese di elezione di Bodini, omologo al borbonico Regno di Napoli e delle Due Sicilie, che ha lasciato un segno profondo nelle popo-lazioni di quella marca di confine che è la Puglia. Per questa ragione, nel mio libro Pirandello, Chiarelli, Montale, Comi, Bodini e altri autori del ‘900 (Genesi, Torino 2023), ho dato alla figura di Bodini la definizione di «gitano pugliese».

Con la dodicesima e ultima sequenza di Foglie di tabacco della silloge La luna dei Borboni e altre poesie, con un solo verso corredato di nota esplicativa, Bodini si costruisce la sua mitologia personale: «Un monaco rissoso vola tra gli alberi». Si tratta di San Giuseppe da Copertino, un santo leccese del Seicento al quale il poeta si sente omologo. Come il fraticello, anch’egli sa di essere litigioso e scontroso. Nella nota in calce al libro, poi, il poeta ricorda le mistiche levitazioni del frate, cui corrispondono in maniera sottintesa i voli lirici dei suoi versi. Ma c’è anche un’altra ragione segreta di affinità che Bodini non rivela nella nota: come Giuseppe è cacciato di casa dalla severa madre, così il piccolo Vittorio viene abbandonato dalla mamma. Infatti Bodini rimane orfano del padre Benedetto a tre anni e a cinque anni subisce un traumatico distacco dalla madre Anita, la quale nel 1919 sceglie di risposarsi. Questo doloroso taglio ombelicale riemergerà in futuro tra i suoi versi nel ricorrente simbolo della luna.

Si prendono allora cura del bambino la zia Emma (anche se poi la mamma riprenderà il bambino in casa a Lecce accanto a due sorelle e un fratello) e poi il nonno materno Pietro Marti, giornalista e storico salentino, che ne fa prima il correttore di bozze e poi uno dei redattori del suo settimanale “La Voce del Salento”.

V. Bodini, Dopo la luna, Besa Muci 2021

Lasciata la Spagna e tornato in Italia e a Lecce, Bodini coglie a Bari delle opportunità che rendono la sua situazione meno precaria. Dal febbraio del 1951 comincia con “La Gazzetta del Mezzogiorno” una collaborazione che durerà fino al marzo del 1954 sui temi della Spagna e della letteratura castigliana. A Bari prende pure avvio la sua carriera universitaria. Grazie alla lungimirante benevolenza di Mario Sansone, a partire dall’anno accademico 1951-52, Bodini è professore incaricato di Lingua e Letteratura spagnola. Finalmente il poeta può dare alle stampe La luna dei Borboni, che esce a Milano nel novembre del 1952 per le Edizioni della Meridiana.

La luna è quella dell’immobilismo storico del regno di Napoli e delle Due Sicilie, è la mezzaluna in bocca al delfino nello stemma di Terra d’Otranto, è il disco lunare che illumina le notti dell’obelisco borbonico di fronte all’arco di Carlo V a Lecce, ma è anche l’archetipo ambivalente della Madre che accoglie o respinge.

Nella raccolta si sente ancora l’influenza dell’ermetismo, ma campeggiano vivide le immagini e i colori di un Meridione atavico e nativo che trasfigurano i puri dati oggettivi del paesaggio, degli uomini e del folklore in un barocchismo onirico ed estatico reso un po’ dolente e amaro dal raffronto col presente. Bodini parla dal fondo di una marca di confine dell’Italia e dell’Europa, l’«amara contea» del Salento, l’«esule provincia» a cui perfino la luna mostra la nuca per rivolgere la sua luce sulle «incognite finestre» del Nord.

Il paesaggio rurale antropizzato del Meridione gli detta versi diventati proverbiali per l’icasticità abbagliante di due soli colori, il bianco e il nero: «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado».



Per Bodini il Mezzogiorno ha bisogno di un laboratorio poetico e di uno strumento critico che in maniera originale dia voce nel contesto italiano alle istanze culturali della provincia, di quella che nella poesia Addio e non leggete chiamerà «periferia infinita» del mondo. Bodini, allora, agli inizi del 1954 vara a Bari, presso il tipografo-editore Cressati, il trimestrale “L’Esperienza poetica”. Egli intende fare il punto della difficile situazione della poesia italiana del dopo-guerra, costretta «nella falsa alternativa tra ermetismo e neorealismo marxista».

Cerca «una poesia in accordo con gli uomini, in cui non c’è posto […] per il dilemma oscurità o chiarezza». Oltre l’ermetismo puro e il neorealismo ideologizzato e cronachistico, la terza via consiste nella possibilità di trovare nuove direzioni e nuove forme di espressione, cioè un ac-corto sperimentalismo che poi lo condurrà verso il surrealismo. L’ultimo fascicolo della rivista si chiuderà nel ’56 ricordando la lezione di De Sanctis e Gramsci. Pur nella sua breve durata, “L’Esperienza poetica” si rivela punto d’incontro di personalità di prim’ordine: Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro, Luciano Erba, Bartolo Cattafi, Libero de Libero, Giorgio Caproni, Leonardo Sinisgalli, Margherita Guidacci, Andrea Zanzotto e tanti altri. La sua seconda raccolta, Dopo la luna, esce nel 1956 a Caltanissetta presso l’editore Sciascia. Dietro la spinta esistenziale, essa rivela un più vivo interesse sociale, non incanalato in direzione neorealista, ma piuttosto orientato verso la ricerca di un nuovo equilibrio poetico tra realtà e mito, fra tranche de vie e svisamento metaforico. È il caso, ad esempio, di Come un polpo sbattuto. Questa lirica traduce la pena di vivere nelle metafore del polpo scagliato «ancora vivo contro lo scoglio» e della tarantola oscillante su «orizzonti di corda», sullo sfondo della Puglia barese e salentina.

Nelle testimonianze di chi lo ebbe come professore di spagnolo all’Università di Bari, Bodini risulta ironicamente alieno da autorita-rismi, ma lunatico, brusco, scostante, accigliato, attraversato da un cruccio segreto. Egli stesso in Dopo la luna si definisce «triste e ilare», «duro e sofistico». La verità è che a Bari si sente a disagio.
Al capoluogo pugliese preferisce la sua splendida Lecce barocca, «dove / sui cornicioni corrono / angeli dalle dolci mammelle».

L’altalena fra Lecce e Bari dura fino al luglio del 1960. Dall’agosto del ’60 è Roma a calamitarlo con intensità sempre più forte. A Roma si rifugia nel piccolo appartamento ai Parioli o per scrivere nello studio che tiene sempre in ordine o per ricevere nell’accogliente salottino gli amici a cui spesso sottopone le sue poesie. Sono inizialmente letterati e traduttori, e più tardi l’esuberante Carmelo Bene, conterraneo e compagno di fumate e di bevute.

Poiché le prime due raccolte poetiche risultano introvabili, l’autore ripubblica le sillogi con tagli e aggiunte. Il nuovo libro, intitolato La luna dei Borboni e altre poesie, è pubblicato nel 1962 a Milano da Arnoldo Mondadori. Trova conferma l’approccio magico-animistico e visionario, il cromatismo di fondo e un estro immaginifico ilarotragico.

Dal ’62 sta scrivendo le poesie per la nuova raccolta. Il surrealismo francese, castiglianizzato dagli autori spagnoli da lui tradotti, incrementa nei suoi versi l’impiego di una tecnica metaforico-surreale aliena da automatismi verbali. La neoavanguardia italiana incalza con I novissimi, il Gruppo ’63 e lo sperimentalismo. Bodini è interessato alla poesia sperimentale e tecnologica, ma non condivide le intemperanze avanguardistiche.

Nel 1967 esce a Milano da Scheiwiller la plaquette intitolata Metamor e dedicata alla figlia Valentina, avuta dalla moglie Antonella Minelli. Secondo quanto egli stesso spiega, Metamor «vuol dire meta-morfosi, metà-amore e metà-morto». Cinque anni prima era stato colpito da un infarto.


Nella nuova raccolta, accanto all’ironia e all’apprensione civile per gli «scandali» e le «crisi di governo», il virtuosismo barocco e surreale bodiniano fa da ponte a una visione apocalittica del mondo accentuata dagli esiti del boom economico e industriale, con intensificazione dei toni dolenti e disperati.

La caduta nell’averno dell’oblio e della morte in Perdendo quota investe anche la neoavanguardia contestataria e nichilista, la cui condivisibile protesta sembra isolata con un velo d’ironico distacco: «Le pallide avanguardie desiderose di scandalo / avanzano anch’esse verso il loro Acheronte». Il fatidico ’68 è un anno di svolta anche per Bodini, che diventa finalmente docente di ruolo all’Università di Pescara. Qui, durante l’anno accademico ’69-’70, si porta nella borsa dei foglietti con frammenti e appunti, sotto il titolo provvisorio di Collage. Nel cassetto giacciono tre raccolte non ancora pubblicate: Inediti, Zeta e La civiltà industriale o poesie ovali. Per amicizia il poeta trova anche il tempo per fare l’attore. Agli inizi del 1970, infatti, con la regia di Carmelo Bene, Bodini impersona nel film Don Giovanni la parte del protagonista da vecchio.

Il 29 ottobre 1970 a Pescara, di ritorno da Bari, è colto da malessere sul posto di lavoro. Si manifesta il male che lo condurrà alla fine. Gli ultimi giorni li trascorre nell’ospedale di S. Giacomo a Roma, dove si spegne il 19 dicembre 1970. Nell’inedito Collage un incubo atroce lo aveva visitato con «l’odore carnivoro delle autoambulanze» e «cinque monatti / in camiciotto turchino».

Marco Ignazio de Santis


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