"Eclissi" di EZIO SINIGAGLIA: recensione di GIANNI A. PALUMBO

Un’eclissi totale di Sole in corrispondenza dell’equinozio di primavera e un viaggio in una sperduta isola del Nord per assistere al fenomeno costituiscono gli elementi all’origine del plot del romanzo Eclissi di Ezio Sinigaglia.

Un’opera tutta focalizzata sul punto di vista del protagonista, l’architetto triestino settantenne Eugenio Akron, di cui lo scrittore scandaglia le risonanze interiori ed esplora i reconditi moventi, che gradatamente si disvelano al lettore. Solitamente un individuo che attraversa luoghi sconosciuti e si espone ai disagi di una partenza lo fa per diletto o perché è in cerca di risposte.

E. SINIGAGLIA, Eclissi, Nutrimenti, Roma 2016
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Il paradosso che si fa strada sin dal primo capitolo risiede invece nella constatazione che la quête di Akron ha per meta la scoperta di una domanda. «Una domanda che, forse, si nascondeva dietro il disco nero della Luna». Non una domanda, ma la domanda. 
Sarà l’incontro, nell’osteria del Min Hval, con l’ottuagenaria mrs. Wilson, vedova come lui, che, sebbene garbatamente, gli proporrà-imporrà la propria compagnia, a far affiorare ciò che, pur non essendo caduto nell’oblio, si celava sotto le ceneri di una necessaria quanto provvida rimozione, sola a poter sedare il magma del cuore.
La narrazione è in climax; si libra inizialmente con ritmo sommesso, in cui peraltro, dalle prime battute, risalta con evidenza l’eleganza di uno stile cristallino e curatissimo, di nitida bellezza.

Di frequente ti imbatti in una nota che sfugge all’usus, come – già a p. 8 – accade per quelle membra, in parallelismo, «arrugginite dalle primavere e ammalorate dagli autunni». Poi rifletti e intendi che esso è pienamente in linea con la professione del protagonista, nella misura in cui quest’aggettivo è adottato generalmente in riferimento a opere murarie e pavimentazioni stradali. 
In realtà, la forza dell’impasto linguistico è uno degli elementi di maggior pregio di Eclissi. L’autore padroneggia lingue, elementi del linguaggio postgrammaticale e registri con la maestria dell’alchimista. Sin dalle prime battute, s’innesta l’inglese degli isolani, connotato dalla tendenza al ribaltamento; i suoni aspri si addolciscono, quelli soavi si inaspriscono, le sorde si sonorizzano e viceversa. È la lingua della signora Hagen, l’affittacamere, che Sinigaglia costruisce subito con un semplice, e allo stesso tempo fortemente caratterizzante, tratto («aveva ascoltato la richiesta di Akron con l’espressività di uno di quei loro scogli di basalto scolpiti dalle burra sche»); è ancora la lingua di Kurtli, Caronte gentile, proprietario di peschereccio.
Le sue parole, nel finale, risuonano quali nobili accenti d’arcana poesia e tali appariranno nella traduzione di Clara: «Birds have wings, and their wings have eyes: they can see things we can’t see». 

Poi c’è l’inglese grazie al quale, in un ludico scambio di lingue, Akron converserà con la Wilson, ricevendo in risposta il ‘controcantato’ slang dell’italiano fonetica mente anglicizzato della donna. Quest’ultimo offre passaggi deliziosi, vere e proprie chicche come il livatacci per levataccia, i termini tecnici astronomici perigì e apogì e i termini costruiti col suffisso -oso, tra cui enormoso e ridicoloso. Non bisogna poi dimenticare l’intensità espressiva del dialetto d’area giuliana, affidato in particolar modo a due personaggi fortemente diversi: Tito, il figlio di Eugenio, pignolo e dotato di rigoroso autocontrollo, e Ben, l’amico di Eugenio morto prematuramente. La sua presenza riaffiora nei flashback che la memoria restituisce, per effetto di un suggestivo déjà-vu, all’architetto.

Beniamino, detto Ben, ci appare il personaggio più affascinante del romanzo. Un fantasma del desiderio, un tempo genius loci degli anfratti del porto, ora annidato nei recessi dello spirito di Akron. «Il prediletto degli dei», lo definisce Eugenio; la sua ansia di vita è tutta nel gesto felino di scalzarsi e salire sulla barca che lo condurrà al suo destino: un «gesto selvatico di gatto dei vicoli». Nel dialetto del suo interagire beffardo con Eugenio nel capitolo 5 – la scena a nostro avviso più bella del romanzo– c’è tutta la spavalderia sfrontata di una giovinezza baciata dalla bellezza e di un coraggio che rasenta l’incoscienza.

Eclissi è un romanzo che appassiona. In esso vibra un senso della Natura possente, che emerge nelle descrizioni di questo regno del basalto ch’è l’isola immaginata da Sinigaglia. Eclissi ci appare simile a una sinfonia elevata sulla soglia del Destino, in cui simmetrie ed elementi metonimici si rincorrono con perizia. Il vento affiora sin dal primo capitolo e diviene un Leitmotiv. Eugenio si definisce un «anemometro vivente», ma ciò non gli varrà a salvare Ben; il vento è protagonista della distruzione di Storybigd, occasione per l’innestarsi di un racconto nel racconto, il quale – tra l’altro – introduce una sorta di dolente alter ego di Akron stesso, il vecchio Gunnarrson. Sin dal primo capitolo, fa capolino la presenza dei cormorani: «Era una domanda che si sporgeva sul vuoto, sul mistero, come il grido stridulo di un cormorano, a sera, dalla vetta di basalto di uno scoglio». Non è affatto casuale che il finale veda, in Ringkomposition, prendere corpo l’estrema suggestione di un quasi folle volo di cormorani.

E su tutto, s’innalza il filo conduttore del contrasto luce-tenebre, che culmina nel paradosso di una «notte straordinariamente luminosa in una tenebra quasi asso luta». È la poesia di ciò che avrebbe potuto germogliare e non è stato; di ciò che, a dispetto della morte e della sconfitta, germoglia; della forza di legami indissolubili che sapranno sempre trovare la via per riaffiorare al cuore e risplendere.

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