Un’eclissi totale di Sole in corrispondenza dell’equinozio di primavera e un viaggio in una sperduta isola
del Nord per assistere al fenomeno costituiscono gli
elementi all’origine del plot del romanzo Eclissi di Ezio Sinigaglia.
Un’opera tutta focalizzata sul punto di vista del protagonista, l’architetto triestino
settantenne Eugenio Akron, di cui lo scrittore scandaglia le risonanze interiori ed
esplora i reconditi moventi, che gradatamente si disvelano al lettore. Solitamente
un individuo che attraversa luoghi sconosciuti e si espone ai disagi di una partenza
lo fa per diletto o perché è in cerca di risposte.
Il paradosso che si fa strada sin dal primo capitolo risiede invece nella constatazione che la quête di Akron ha per meta la scoperta di una domanda. «Una domanda che, forse, si nascondeva dietro il disco nero della Luna». Non una domanda, ma la domanda.
Sarà l’incontro, nell’osteria del Min Hval, con l’ottuagenaria mrs. Wilson, vedova come lui, che, sebbene
garbatamente, gli proporrà-imporrà la propria
compagnia, a far affiorare ciò che, pur non essendo
caduto nell’oblio, si celava sotto le ceneri di una
necessaria quanto provvida rimozione, sola a poter
sedare il magma del cuore.
La narrazione è in climax; si libra inizialmente con
ritmo sommesso, in cui peraltro, dalle prime battute,
risalta con evidenza l’eleganza di uno stile cristallino
e curatissimo, di nitida bellezza.
Di frequente ti imbatti in una nota che sfugge all’usus, come – già a p. 8 – accade
per quelle membra, in parallelismo, «arrugginite dalle primavere e ammalorate
dagli autunni». Poi rifletti e intendi che esso è pienamente in linea con la
professione del protagonista, nella misura in cui quest’aggettivo è adottato
generalmente in riferimento a opere murarie e pavimentazioni stradali.
In realtà, la forza dell’impasto linguistico è uno degli elementi di maggior pregio di
Eclissi. L’autore padroneggia lingue, elementi del linguaggio postgrammaticale e
registri con la maestria dell’alchimista. Sin dalle prime battute, s’innesta l’inglese
degli isolani, connotato dalla tendenza al ribaltamento; i suoni aspri si addolciscono,
quelli soavi si inaspriscono, le sorde si sonorizzano e viceversa. È la lingua della
signora Hagen, l’affittacamere, che Sinigaglia costruisce subito con un semplice, e
allo stesso tempo fortemente caratterizzante, tratto («aveva ascoltato la richiesta di
Akron con l’espressività di uno di quei loro scogli di basalto scolpiti dalle burra sche»); è ancora la lingua di Kurtli, Caronte gentile, proprietario di peschereccio.
Le sue parole, nel finale, risuonano quali nobili accenti d’arcana poesia e tali appariranno nella traduzione di Clara: «Birds have wings, and their wings have eyes: they
can see things we can’t see».
Poi c’è l’inglese grazie al quale, in un ludico scambio di lingue, Akron converserà
con la Wilson, ricevendo in risposta il ‘controcantato’ slang dell’italiano fonetica
mente anglicizzato della donna. Quest’ultimo offre passaggi deliziosi, vere e proprie
chicche come il livatacci per levataccia, i termini tecnici astronomici perigì e apogì
e i termini costruiti col suffisso -oso, tra cui enormoso e ridicoloso. Non bisogna poi
dimenticare l’intensità espressiva del dialetto d’area giuliana, affidato in particolar
modo a due personaggi fortemente diversi: Tito, il figlio di Eugenio, pignolo e
dotato di rigoroso autocontrollo, e Ben, l’amico di Eugenio morto prematuramente.
La sua presenza riaffiora nei flashback che la memoria restituisce, per effetto di un
suggestivo déjà-vu, all’architetto.
Beniamino, detto Ben, ci appare il personaggio più affascinante del romanzo. Un
fantasma del desiderio, un tempo genius loci degli anfratti del porto, ora annidato
nei recessi dello spirito di Akron. «Il prediletto degli dei», lo definisce Eugenio; la sua
ansia di vita è tutta nel gesto felino di scalzarsi e salire sulla barca che lo condurrà al
suo destino: un «gesto selvatico di gatto dei vicoli». Nel dialetto del suo interagire
beffardo con Eugenio nel capitolo 5 – la scena a nostro avviso più bella del romanzo– c’è tutta la spavalderia sfrontata di una giovinezza baciata dalla bellezza e di un
coraggio che rasenta l’incoscienza.
Eclissi è un romanzo che appassiona. In esso vibra un senso della Natura possente, che emerge nelle descrizioni di questo regno del basalto ch’è l’isola immaginata da
Sinigaglia. Eclissi ci appare simile a una sinfonia elevata sulla soglia del Destino, in
cui simmetrie ed elementi metonimici si rincorrono con perizia. Il vento affiora sin
dal primo capitolo e diviene un Leitmotiv. Eugenio si definisce un «anemometro
vivente», ma ciò non gli varrà a salvare Ben; il vento è protagonista della distruzione
di Storybigd, occasione per l’innestarsi di un racconto nel racconto, il quale – tra
l’altro – introduce una sorta di dolente alter ego di Akron stesso, il vecchio
Gunnarrson. Sin dal primo capitolo, fa capolino la presenza dei cormorani: «Era una
domanda che si sporgeva sul vuoto, sul mistero, come il grido stridulo di un
cormorano, a sera, dalla vetta di basalto di uno scoglio». Non è affatto casuale che il
finale veda, in Ringkomposition, prendere corpo l’estrema suggestione di un quasi
folle volo di cormorani.
E su tutto, s’innalza il filo conduttore del contrasto luce-tenebre, che culmina nel
paradosso di una «notte straordinariamente luminosa in una tenebra quasi asso
luta». È la poesia di ciò che avrebbe potuto germogliare e non è stato; di ciò che, a
dispetto della morte e della sconfitta, germoglia; della forza di legami indissolubili
che sapranno sempre trovare la via per riaffiorare al cuore e risplendere.
Scopri tutti i contenuti del primo numero a questo link