Il canto silenzioso: ALBA DE CÉSPEDES rivisita il mito delle sirene
La raccolta Fuga e Varie, che Mondadori pubblicò nel 1940 e a cui seguirono ben undici ristampe, si presenta oggi come una fucina di sperimentazione letteraria cui Alba de Céspedes dedicò notevoli sforzi in termini di innovazioni stilistiche e rielaborazioni tematiche. Numerosi topoi e miti di tradizione classica attraversano il nerbo della raccolta e vengono magistralmente contaminati dall’autrice che dà vita a una serie di rivisitazioni rispondenti a un gusto assai contemporaneo. È il caso di uno dei racconti conclusivi della raccolta, Incontro con la sirena: l’isola descritta da Alba e che fa sfondo alla vicenda è l’inevitabile risultante di una tradizione retorica che a partire dagli anni Trenta del XIX secolo ha riscosso una fortuna senza precedenti. Da Barrie a Joyce il mito della sirena sembra intimamente connesso (ne è quasi dipendente) all’immagine di un’isola misteriosa, che non compare sulle mappe, circondata com’è da una fitta nebbia che impedisce ai marinai di scovarne il profilo, ai geografi di tracciarne i confini.
L’atavico motivo della nebbia, caro anche ad Alba, è mutuato da racconti marittimi e infatti contribuisce a nascondere il volto della balena di Melville. In Fuga la nebbia non avvolge solamente l’isola in un’aura di mistero, ma ancor di più la fa scivolare nella dimensione ontologica della indefinitezza: la celebre isola – appunto – non c’è e non a caso Alba dipinge accuratamente l’immagine di un «paesaggio di sogno» [1]. Come risulta chiaro già dal racconto dello spiritello in sede di prefazione, l’avvicendarsi del dormiveglia e le tracce della fatica diurna annebbiano i sensi, agevolando così il dispiegarsi dell’elemento fantastico. È tipico di Fuga non dare nome ai protagonisti dei racconti e Incontro con la sirena non fa eccezione: è un generico ‘egli’, infatti, che apre il racconto. La nebbia, dunque, contribuisce allo stato di trance in cui versa l’anonimo protagonista, convinto di aver finalmente avuto la forza di distaccarsi dalla magnetica isola, dopo lungo rimuginare. Il segreto della balena è ora quello di un’isola muta, in cui le uniche voci che si odono non parlano lingua umana, non sembrano appartenere ad alcuna creatura in carne e ossa e fungono da richiami verso una realtà irrazionale: «erano voci marine» [2] e così Alba scosta il velo e fa luce sul segreto delle sirene, nella cui natura è insita la vocazione ammaliante e seducente che costò la vita a tanti cuori deboli.
Ancora l’isola, quando la nebbia si dirada appena, assume tutte le caratteristiche di un’ambientazione sovrumana: illuminata dal sole che tramonta alle sue spalle, l’isola dal profilo scuro, irta di rocce, si fa simile alla montagna purgatoriale, sospesa per sua natura tra due dimensioni. Il costante riferimento alla sonnolenza e allo stato di torpore che grava sull’isola e ingabbia il protagonista consente all’autrice di predisporre le condizioni ottimali al germogliare di una sorta di magia, l’ispirazione poetica identificata con lo spiritello della prefazione e che spiana la strada al susseguirsi di dinamiche narrative fantastiche, a tratti orrifiche. Il sonno è la porta d’accesso alla dimensione onirica pura che si colloca al di là degli stati allucinogeni o del romantico sogno a occhi aperti: si tratta della dimensione altra per antonomasia, gemella della realtà, a essa speculare, dove ciò che esiste di fantastico prende il sopravvento per gestire i meccanismi dell’esistenza. Anche le ore della giornata prescelte per l’ambientazione sono oggetto di interesse critico: la notte e il far del mattino sono anch’essi momenti speculari, entrambi lontani dal frastuono di una vita attiva, ideali per accogliere il riposo, prosperi per l’epifania. Il ricordo richiama alla mente del viaggiatore un’altra innominata, una generica “ella” che, come lui, all’alba è ancora preda di Morfeo e con lui si aggira per i sentieri di un sogno in cui si attende l’accadimento dell’impossibile.
Lei, polo magnetico dai capelli fulvi, si erge a baluardo invalicabile, irraggiungibile come l’isola che non c’è, che le fa da alcova. Lei, prigioniera di un sogno, appare trincerata all’interno di una fitta rete di pensieri alla quale ‘egli’ non può sperare di avere accesso, così come l’equipaggio del Pequod è escluso dalla contemplazione del volto semidivino della balena bianca. La natura di lei è ibrida e indefinita come quella di una sirena, infatti «ella gli era sempre stata mezzo vicina e mezzo lontana, come le sirene che sono mezzo pesce e mezzo donna» [3]. Che la creatura fin qui descritta facesse parte di una dimensione altra, voluta e permessa dal sonno, lo si esplicita più avanti: mentre le donne ottuse, che il protagonista scorge passeggiare sulla banchina al momento dell’imbarco, sono inequivocabilmente fatte di carne come lui, «ella, invece, gli pareva composta di un’altra sostanza e immersa, insieme con quanto era nell’isola, in un sonno magico, simile al letargo di alcuni animali. Se appuntiva la memoria, non rammentava neppure il volto di lei […].
E anche la voce di lei gli si perdeva nel ricordo; rammentava le parole, il significato loro, ma quasi fossero state dette con le labbra soltanto, senza suono» [4]. Come accade per Moby Dick, anche il volto della sirena decespedesiana, afferendo alla dimensione onirica, risulta difficile da mandare a memoria: le creature divine, semidivine o fantastiche che la letteratura ci tramanda si piegano spesso alla retorica del volto assente, impossibile da concepire dalle labili facoltà umane. Anche la voce di lei si perde in sfocati ricordi, ma non solo: sembra inoltre che la sirena abbia parlato al suo amante in silenzio.
Ricostruire l’immensa biblioteca di un’autrice prolifica come Alba de Céspedes non è facile, ma una simile lettura, che indaga le declinazioni a cui Alba ha sottoposto un mito atavico come quello della sirena, ci fa credere che su quegli scaffali ci sia stato Melville, così come Kafka. Il silenzio delle sirene (Das Schweigen der Sirenen) risale al 1917, ma fu pubblicato postumo nel 1931, quando Max Brod selezionò alcune storie firmate da Kafka, per poi pubblicare una raccolta di racconti dal titolo Beim Bau der Chinesischen Mauer. Il racconto dedicato ai celebri ibridi del mito propone una riscrittura dell’incontro di Ulisse con le suddette sirene ed è subito chiaro che il fulcro della vicenda sia proprio la voce pervasiva degli ammalianti ibridi, il cui canto penetrava ovunque e ovunque mieteva vittime, a eccezione di Ulisse: l’uomo dal multiforme ingegno fu l’unico in grado di spezzare il fatale incantesimo del richiamo. Ma l’arma più potente a disposizione delle crudeli sirene – e qui Kafka si cimenta nel più grande dei paradossi – è il loro silenzio, la capacità di tacere, o meglio di privare di voce e suono qualunque creatura sia sventurata abbastanza da incrociarne il cammino: «[…] si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio» [5].
Decretando il trionfo del moderno pensiero razionale sulle categorie mitiche, la riscrittura kafkiana consegna all’eroe omerico una gloria mai sperimentata prima: non è stata l’ingegnosa soluzione approntata da Ulisse a decretarne la sopravvivenza e ad affermare la vittoria della razionalità sul magico canto; sono state le sirene, padrone dei mari, a restare in silenzio al passaggio del re di Itaca. Non hanno cantato al cospetto di un avversario troppo più forte di loro, o addirittura dimenticarono di cantare, rapite com’erano dalla beatitudine che si era fatta strada sul volto di Ulisse. Kafka inganna il lettore, facendogli credere in prima battuta che l’escamotage dei tappi di cera abbia effettivamente funzionato e che Ulisse ne sia consapevole; tuttavia non c’è racconto kafkiano che non si concluda con un colpo di scena volto a rovesciare le consuete dinamiche narrative: l’inganno perpetrato in realtà è duplice, in quanto Ulisse avrebbe solo finto di credere che le sirene stessero cantando, quando si era in realtà accorto che invece tacevano per rispetto di un avversario riconosciuto come superiore. Il canto delle sirene, secondo quanto sostenuto nella Dialettica dell’Illuminismo da Horkheimer e Adorno, è «espressione di un’arte capace di rinviare alla vita» [1], perciò il loro silenzio e la rinuncia a cantare sono segni tangibili della colpa di Ulisse e per estensione dell’uomo moderno, ormai indifferente e immune a ogni tentativo di seduzione da parte della magia e delle bellezze superstiti che l’arte promuove. Dunque perché il canto delle sirene è per Kafka meno pericoloso del loro silenzio?
È cosa nota che la voce seduttiva degli incantevoli ibridi metà donna e metà pesce suggerisca ai marinai in stato di trance la promessa di una felicità irresistibile che si rivelerà tuttavia per loro fonte di una rovinosa disfatta. Il silenzio però è un’arma più temibile, in quanto è nel silenzio che Kafka traduce la negazione del tempo progressivo: questa impedisce l’insorgere di quella speranza che scaturisce dai concetti di sviluppo e cambiamento e fa della scrittura, fino ad allora considerata la soluzione alla mancanza di senso che affligge l’esistenza, la testimonianza definitiva dell’impotenza della parola.
Ulisse è in fin dei conti un artista che viene forzatamente isolato da una società con la quale non è più in grado di comunicare: l’interruzione del canto delle sirene dichiara che il mondo ha perso tutto ciò che di bello aveva da offrire, perciò l’eroe omerico rivisitato da Kafka non usa il geniale espediente dei tappi di cera e delle catene per resistere a un canto dall’attrazione magnetica, cerca piuttosto di mettersi al riparo da quello che in realtà è un lamento funebre, che richiama alla morte più che alla vita, che è «espressione di quel sentimento di disperazione che l’uomo prova all’interno di un mondo svuotato di ogni possibile senso» [7]. Anche a livello linguistico, il testo si presenta articolato in sei periodi e ogni periodo figura come la negazione del precedente tramite l’avversativa introdotta da “però”, in modo che anche il linguaggio, piuttosto che creare nessi logici, si autodistrugge contraddicendosi. Di fronte all’orgoglio di Ulisse, incapace di produrre nuove conoscenze, ma solo di indulgere alla dimenticanza, non resta che il silenzio, risultante dall’impossibilità di interpretare il reale tramite la parola.
Molto diverso il punto di vista di Hans Christian Andersen, fonte primaria delle riscritture fantasy con una sirena protagonista. Nel plausibile tentativo di spogliare le mitiche creature di quell’aura demoniaca che parte della tradizione aveva affibbiato loro, il favolista danese sostiene che le ammalianti voci delle sirene non ottemperino ad alcun intento ingannevole, al contrario le cinque sorelle della fiaba che avevano voci «più belle di quelle umane […] cantavano dolcemente di come era bello stare in fondo al mare e pregavano i marinai di non aver paura di arrivare laggiù» [8].
Si sa d’altronde che la sirenetta di Andersen, la stessa che ispirò il celeberrimo film d’animazione Disney, si presta all’altruistico soccorso del principe naufragato, per il quale vorrà cambiare la propria natura marina, assumendo forma umana, al prezzo della sua potentissima voce. La sirenetta muta chiaramente si presenta come il topos ben consolidato di una tradizione letteraria che Alba doveva avere presente. Molto rumorose, invece, sono le sirene che interagiscono con Peter Pan nell’omonima fiaba di James Barrie: di giorno giocano fra loro e tendono piccoli agguati dispettosi alla piccola Wendy, gelose come sono del rapporto assai intimo che intercorre tra la bambina e il loro beniamino volante; di notte invece, in particolare al sorgere della luna, «le Sirene emettono strane grida lamentose e la Laguna diventa pericolosa per i mortali» [9]. A differenza di Andersen, Barrie non edulcora affatto l’istinto omicida che talvolta guida le azioni delle sirene che si incontrano sull’isola che non c’è, glissando quasi del tutto sul canto ammaliante che pertiene alla loro natura e concentrandosi piuttosto sulla brutalità gratuita che le infide creature perpetrano ai danni dell’innocente Wendy, quando questa giace inerme sulla Roccia del Teschio e le sue mostruose nemiche tentano di trascinarla negli abissi, fino all’intervento salvifico di Peter Pan.
Tornando ad Alba, il potere seduttivo della voce muta propria della sua sirena a un certo punto si rivela fallace, allorquando il protagonista senza nome, fino a poco prima ben lieto di lasciarsi sprofondare negli abissi da quella forza magnetica che gli offriva in cambio la libertà dalle contingenze terrestri, si allontana dall’isola con il proposito di non farvi ritorno, perché lui avrebbe voluto per sé «una donna, tutta donna» [10], non un bizzarro ibrido: necessitava di una compagna che facesse parte della sua città, della sua gente e che non rimanesse invece avvolta nel mistero ancestrale dell’isola, incatenata a una magia alla quale lui, che forse nemmeno la amava, non aveva accesso. È possibile che quello nutrito dal protagonista fosse un bisogno egoistico di confortare se stesso, stabilendo di non essere pazzo e che l’incontro con la sirena non era stato solo un perfido scherzo dell’imma-ginazione. Ma l’egoismo è nemico delle miracolose epifanie e costringere gli elementi magici come lo spiritello e la sirena a rispondere a un umano desiderio di vicinanza e di affetto porta a rovinose conseguenze: per vivere anche dicato all’enigmatica figura della sirena che – non si fatica a crederlo – assume tratti ancor più complessi da decifrare. È chiaro che si tratti di una donna, una donna che fa del sesso moneta di scambio o occasione di piacere, dopo aver applicato una serie di efficaci meccanismi di seduzione, ricorrendo alla sua soave voce. Già a partire dall’incipit dell’episodio, che paragona il canto della sirena al suono di zoccoli al galoppo, si comprende che la voce è il mezzo che la creatura usa per rivelarsi: «E s’udì un richiamo, puro prolungato in palpiti, lungosonante. Seducente. Soave parola […]! Cinguettanti note in sùbita risposta» [11].
Il canto della sirena mette in pausa il «cantare qualsiasi» [12] che scandisce, sempre allo stesso ritmo, la vita monotona di Mr. Bloom, seduce lo sventurato che lo ode ancor prima delle sue avvenenti fattezze: la sua voce si declina in suoni sconosciuti che dalle orecchie passano al cuore, fino a divenire tutt’uno coi battiti e in essi continuare a esistere. Anche nell’Irlanda di Joyce, se ci si dovesse sfortunatamente imbattere in una sirena, si farebbe fatica ad assimilarne il canto a suoni preesistenti e familiari, tanto è dissimile dalla pioggia scrosciante, dal mormorio delle foglie, dalle armoniose melodie riprodotte da strumenti accordati ad arte. Pur priva di ogni possibile dolcezza, la voce della sirena ha in sé il potere di operare in chi la ascolta un netto distacco dalla realtà contingente, non certo favorendo l’ingresso a una dimensione onirica in cui è piacevole librarsi e fantasticare, bensì provocando un debilitante senso di smarrimento. Ma così come vi si smarrisce la coscienza, nel dormiveglia si disperdono anche le angosce e si avvertono «i dispiaceri dissociarsi da ciascuno, appena ciò [il canto della sirena] appariva all’udito» [13]. Per quanto prediliga la tesi del canto a quella del silenzio, Joyce condivide con il racconto kafkiano l’amarezza insita nell’epilogo: la musica seducente delle sirene, così come il loro silenzio, deve coesistere con altri suoni presenti in natura o generati dall’essere umano, note oscure e primordiali che decretano la condizione strutturale dell’uomo moderno, incapace di riemergere del tutto dagli abissi di sofferenza che lo tengono in trappola.
Quando ‘egli’ prova a tornare sull’isola, consumato dal desiderio di rivedere la sirena dai fluenti capelli, i confini e le sponde aspre sono scomparsi definitivamente: essa rappresenta sogni e speranze che la rumorosa dimensione del reale inghiotte e sommerge e a chi se ne è allontanato anche solo per poco la dimensione onirica, in cui il mito sopravvive, resta preclusa in eterno. La sirena, sommersa anche lei, è diventata tutt’uno col mare gorgogliante, tornata alla sua dimora primigenia: ricalcando una sorta di panismo di dannunziana memoria, Alba descrive le alghe bionde che galleggiano a pelo d’acqua e che ricordano i lunghi capelli di lei, mentre le bollicine e i cerchi concentrici che si espandono gradualmente sulla superficie fanno immaginare all’infelice protagonista che la sua sirena vi si fosse appena immersa. Ben lungi dal procurare un appagamento spirituale totalizzante, per quanto momentaneo, questa particolare rivelazione del sovrannaturale ha prosciugato il protagonista delle sue energie vitali, imponendogli un doloroso distacco dalla vita. E continuando con le ipotesi ricostruttive delle biblioteche, non sono certa che Mathias Malzieu si sia mai imbattuto in questo racconto di Alba de Céspedes, ma non è escluso che un giorno io stessa non possa domandarglielo.
Quel che è certo è che l’autore di Una sirena a Parigi ha certamente rielaborato identiche o simili fonti, cui anche la de Céspedes attinse, specialmente nell’assimilare la voce della sirena – anche in questo caso non fatta di parole – a «rumori sottilissimi di cristallo» [14]: una melodia senza parole che ammalia un vecchio pescatore, colto nell’atto di avvicinarsi alla Senna ingrossata, come fosse un automa. Aderendo in toto alla tradizione più nota, la voce della sirena, di cui persino la tosse «risuonava come una cascata di perle» [15], agisce da «ninnananna magnetica» [16]. Ma ancora una volta, perché il miracolo si manifesti in tutta la sua pienezza, restare incantati dalla voce della sirena non basta, occorre invece che si verifichi un repentino capovolgimento della realtà: sappiamo infatti dal narratore onnisciente che la Parigi del romanzo è sommersa da una pioggia torrenziale che non pare affievolirsi, tanto che la Senna è sul punto di esondare.
Il terrificante spettacolo apre il sipario su una Parigi rovesciata, capovolta dal vento forte e incessante, in una parola irriconoscibile. La dimensione altra prepara l’ingresso dell’elemento magico, come impongono i meccanismi della narrativa fantasy. Rispetto al racconto di Alba, il romanzo presenta diversi elementi innovativi, primo fra tutti il fatto che il protagonista abbia un nome: Gaspard, uomo del nuovo millennio, del tutto disincantato e indifferente a ciò che vi è di straordinario nel mondo, può vedere la sirena e, per quanto ciò sembri alterare le percezioni razionali su cui fa costante affidamento, deve infine ammetterne l’esistenza. Non solo, ma sembra che Gaspard, nonostante la tradizione letteraria dia sempre per scontate le informazioni relative alle mitiche sirene, a partire dal loro inconfondibile aspetto, non abbia idea della creatura che gli si para di fronte sulla sponda della Senna in tempesta, con la sua coda a scaglie fluorescenti, ferita e che per questo deciderà di portare a casa sua, nel tentativo disperato di prestare cure mediche a una creatura magica.
La struttura culturale che definisce le sirene è stata cancellata dal substrato empirico del cinico Gaspard, perché l’uomo del nuovo millennio, eroe del progresso scientifico e del ragionamento logico, ha eliminato l’elemento magico dalla sua esistenza, dai ricordi e dalle fantasie. Accettare l’incanto non è ammissibile.
Cosa farà crollare l’estrema razionalità di Gaspard? Ancora una volta il canto della sirena, ma seguendo modalità inedite: Lula, la sirena dalla coda di diamante, ben lungi dall’essere muta o dall’esprimersi tramite un linguaggio incomprensibile all’uomo, impara in fretta la lingua francese, così può spiegare a Gaspard, di cui altrettanto facilmente si innamora, che i miti sulle sirene sono falsi e infamanti.
Una sirena, infatti, può decidere se produrre un canto mortifero a scopi di difesa, un richiamo attraente in grado di uccidere, o se cantare dolcemente assieme all’innamorato le sue canzoni preferite, quelle che gli riportano in mente la cara nonna e il suo amore per lo spettacolo, quelle note capaci di abbattere momentaneamente le barriere di un’arida razionalità e lasciare spazio a un po’ di magia che non fa mai male.
Mariasole Di Cosmo
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[2] Ivi, pp. 257-258.
[3] Ivi, p. 258.[4] Ivi, p. 259.
[5] F. Kafka, Il silenzio delle sirene, tratto da https://www.yeyebook.com/it/franz-kafka-il-silenzio-delle-sirene-racconto-breve-testo-it/
[6] A. Valentini, Il silenzio delle sirene. Mito e letteratura in Kafka, Mimesis Filosofie, Milano 2012, p. XVII.
[7] Ivi, p. 143.[8] H.C. Andersen, Fiabe, trad. di A. Cambieri, Mon-dadori, Milano 2011, p. 85.
[9] J. M. Barrie, Peter Pan, Mondadori, Milano 2010, p. 92.
[10] De Céspedes, Fuga, cit., p. 263.
[11] J. Joyce, Ulisse, trad. a cura di G. Celati, Einaudi, Torino 2013, p. 352.
[12] Ivi, p. X.
[13] Ivi, p. 377.
[14] M. Malzieu, Una sirena a Parigi, Feltrinelli, Milano 2020, p. 19.
[15] Ivi, p. 74.
[16] Ivi, p. 21.