Un verso può uccidere, lo asseriva un giovane autore serbo di cui Daniele Giancane e io ci siamo occupati nella collana “Poeti del mondo” da noi diretta per vari anni. Mi riferisco a Branko Miljković (1934-1961) e al volume Le acque cieche dello Stige edito a Bari da La Vallisa, a dicembre 1994, con scelta dei testi e traduzione di Dragan Mraović. Una silloge suggestiva, con un epitaffio mozzafiato: «Mi ha ucciso la parola troppo forte». La vita e la morte, il vuoto e il nulla erano delle costanti dell’autore di Niš, ritenuto tra i maggiori della poesia serba del XX secolo. Erudito e bohémien , amante dei classici (Ovidio, Lucrezio, Dante, Petrarca, Ariosto, Leopardi, Manzoni), si considerava «il pronipote dei simbolisti e il nipote dei surrealisti» secondo quanto attestato dallo scrittore Vidosav - Vice Petrović, conterraneo e amico d’infanzia del poeta. Miljković vagava tra Belgrado e Zagabria, sfidando i giorni e i segni. Si suicidò nella notte tra l’11 e il 12 feb...